About

Martina Fontana (1984) vive e lavora a Prato.

Martina Fontana è un’artista figurativa la cui ricerca spazia nel campo della materia, traendo ispirazione dalla natura, dalla sua fenomenologia e dalle relazioni interspecifiche. Ha esposto in contesti museali e in gallerie su territorio nazionale e internazionale. Laureata nel 2007 all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, porta avanti da sempre la propria ricerca pittorica e scultorea, spaziando tra tecniche e materiali di origine naturale e di sintesi. La formazione di tipo artistico- scientifica favorisce un approccio improntato sull’indagine e sulla sperimentazione. Le esperienze lavorative nell’ambito dell’architettura e del teatro, sviluppano il suo interesse per lo spazio e per la stretta relazione che si viene a creare con gli individui che entrano a farne parte. Dal 2016 al 2023 è stata referente del progetto Art Factory di Dynamo Camp, per il quale ha condotto attività di progettazione e realizzazione di laboratori a fianco dei maggiori artisti del panorama contemporaneo internazionale.

Il contesto in cui ha lavorato negli ultimi anni pone attenzione alle dinamiche emozionali e relazionali, al rapporto tra corpo e natura, destrutturando la percezione dei limiti fisici e di quelli mentali. La sua ricerca artistica indaga il rapporto tra corpo e ambiente, animato da una simbiosi in continuo divenire. L’elaborazione lenta e metodica, che avviene talvolta nei rituali collettivi, riporta forzatamente a un ritmo del fare che non conosce scorciatoie e che costringe nella sua pratica ad una riflessione sul tempo che scorre, necessario e importante per dare inizio e completamento a cicli generativi.

 

Il mistero magico della materia
Di Claudio Giorgetti

Sono alcuni anni che Martina lavora in un ambiente dove la natura non è accessorio o elemento di arredo, ma fattore decisivo e determinante del fare e dell’agire umano. Martina lavora in mezzo ad un bosco. È operatrice presso una struttura che accoglie bambini e ragazzi con patologie varie. Questa struttura è ospitata in una delle più belle foreste dell’Appennino Tosco-Emiliano a due passi dai paesi dell’area montana e a pochi chilometri dalla città, eppure è già in un’ altra dimensione. Qui le stagioni si avvicendano mostrando tutte le declinazioni della vita, in un intreccio che avviluppa animali e piante stretti in un abbraccio ora armonico ora conflittuale, necessario allo sviluppo e alla crescita, a volte fatale per l’essere più debole. Il contatto con la malattia, la sofferenza, la paura, ma anche la speranza e la gioia, ed insieme l’energia esplosiva dell’ambiente che è in fermento, anche quando sembra fermo, non potevano non avere un profondo effetto segnando la sensibilità artistica della nostra autrice che ha intrapreso ormai da alcuni anni un percorso personalissimo in cui la creatività è al servizio di un’ idea e di un messaggio.Tutto vive. E ogni forma di vita è degna di rispetto. Tutto si trasforma, Tutto si rinnova. Guardare delle radici che lentamente ma inesorabilmente affondano in cerca di humus, raccogliere pezzi di corteccia come se fossero le croste delle cicatrici che il tempo ha rimarginato, stupirsi per un nido di uccellini che rende viva una siepe, un cespuglio spinoso, riconoscere nei ciottoli di un ruscello le impronte di vite passate o i segni di altre ere , tutto questo conferma a Martina che questo impalpabile soffio vitale anima la terra da tanto tanto tempo, e che ancora non dà segno di esaurirsi.Questa prorompente carica non è facile da rappresentare, è molto più semplice immaginarla e ancora di più intuirla per brevi istanti. Trasportarla sulla tela e fissarla in un modulo rigido e statico per renderla palpitante e comunicativa non è facile per niente. Martina ci prova. E spesso ci riesce. L’artista non ha più tempo per contestazioni o polemiche, non perde energie a sollecitare il pubblico a ritrovare quello sguardo semplice e disincantato con il quale è più facile cogliere la gioia e le sfumature dell’esistenza. È andata oltre e sa che l’oggetto d’arte una volta realizzato è animato come un qualunque essere vivente, e dunque è una cosa che agisce. Le opere dell’artista si muovono in un range che dal materico, figlio dell’Espressionismo Astratto e della Pop Art, si sposta con disinvoltura verso il Surrealismo con un solido cordone ombelicale che le lega all’ Arts and Crafts ed al più recente Ready Made. Ma sono echi che l’autrice lascia riverberare senza concedere a nessuna di queste espressioni il privilegio del dominio, perché tutto è riassorbito in una visione personalissima tesa ad un risultato finale che non ha mai niente di timido.

Queste opere emergono con prepotenza, si fanno spazio, si impongono. Non parlano per sussurri, urlano. Dagli amati maestri a cui inizialmente il suo la- voro si era ispirato ( Alberto Burri, Daniel Spoerri, Anselm Kiefer, Yves Klein) solo per citarne alcuni tra i più prossimi al lavoro di M. Fontana) l’autrice ha acquisito la preziosissima lezione che impone di conferire al particolare un valore ermeneutico, stabilendo corrispondenze euritmiche con il resto dell’o- pera. Proseguendo il discorso iniziato, che si sviluppa di lavoro in lavoro con coerenza e continuità, cerca, pur nell’innovazione, di ricomporre quei canoni estetici di bellezza ed armonia presenti anche nelle opere astratte, il cui significato non si esaurisce in una trasgressione e che proprio in quanto tale dipende e non si emancipa da ciò che contesta.Martina lavora in solitudine ma è pronta a cogliere qualsiasi movimento le accada intorno. Tutto può entrare a far parte dell’atto creativo. Le sue opere sono materiche, non solo perché ambiscono in alcuni casi a conquistare la terza dimensione “uscendo” dal supporto bidimensionale, non solo perché spesso sono realizzate con rami, foglie, semi, radici, impastati sulla superficie del quadro con pigmenti ora puri ora diluiti e sfumati, ma sono materiche perché rendono omaggio alla materia, alla natura intrinseca del legno con le sue venature, i suoi nodi e le sue fratture mostrandoci con enfasi la fragilità di tessuti biologici ormai ridotti a carta velina, esile ed impalpabile.Il colore è una prorompente sferzata di vitalità. È un colore sfacciato, quasi arrogante, assoluto nella sua densità e saturo della sua luce. Spesso sono colori acrilici, altre volte pigmenti puri come il Blu Indaco nel quale l’occhio naufraga assorbito dal richiamo incantatore del quadro.L’artista vuole di più e nel tentativo di coinvolgere maggiormente lo spettatore realizza opere che “parlano”, dove un sonoro accompagna la visione del lavoro raccontandolo e di fatto rinnovandolo ad ogni ascolto. L’interpretazione poi è fornita da uno psico-terapeuta che in questo caso utilizza l’arte come strumento di lavoro e la circolazione di queste informazioni genera un loop che fa del tratto culturale un istogramma sociale che ben individua il momento che viviamo. Una visione sincronica dunque, tesa a conferire valore, qui e ora, a ciò che facciamo, alla nostra esistenza, alle nostre illusioni e alle nostre speranze. Affinchè il coinvolgimento sensoriale sia il più completo possibile Martina realizza le sue opere a volte utilizzando materiali sia organici che sintetici che odorano o puzzano. Le tracce olfattive imprimono alle opere un ulteriore carattere di unicità, al punto che alcune le si ricorda proprio per l’aroma che emettono. Effluvi di vita che si disperdono nel tempo.La “contaminazione” tra materiali differenti, alcuni nobili come metalli preziosi o cristalli o fibre vegetali, altri miseri o di recupero, riciclati e rinnovati, altri ancora plastici, artificiali come le resine e i polimeri che l’artista modella a spatola o a mano, questo melting-pot, questa mescolanza, dicevo, non preoccupa l’autrice ne è mai casuale, ma la conclusione di lunghe sperimentazioni,
i cui esiti favorevoli sono ormai un suo patrimonio. Segreti di laboratorio, i cui risultati si fanno godibili in opere come “Per Aspera ad Astra” o “Fecundus”, solo per citare le prime che mi vengono in mente.
Il bisogno di conquistare la terza dimensione si compie attraverso la bella e visionaria scultura Armatura-Natura il cui titolo scelto è Cicatrici. Frammenti di legno, cortecce, nodi delle venature, sono stati campionati attraverso calchi dettagliati e assemblati a costituire una sorta di corsetto con tanto di cinghie di cuoio per fissarlo e regolarne l’ampiezza. Vagamente modellato su un busto umano femminile è stato sviluppato come se fosse un anomalo tronco cavo di albero. Un albero apparentemente abbattuto, devitalizzato, uno strumento se non di morte sicuramente di tortura, se non fosse che l’artista riscatta l’opera da questo significato masochista e pessimista rivestendo l’interno con foglia d’oro, a significare la scintilla di vita che latente aspetta solo di manifestarsi ancora.L’oro, incorruttibile metallo, espressione perfetta della vita minerale, assume qui valore luminoso di promessa, di un nuovo inizio, di resurrezione, come era intenzione dell’autrice che attribuisce alle “cicatrici” un valore positivo, utile ad una necessaria crescita personale. In una orchestrazione un po’ barocca, giacché tesa al fine di stupire e coinvolgere sensorialmente ricorrendo anche al “colpo di teatro”, l’artista propone un percorso in cui non è tanto in discussione il cambiamento epistemologico della nozione di arte quanto la credibilità dell’arte stessa, che in questo caso non lascia certo indifferenti, perché ogni lavoro, e lo si avverte con una prepotenza a volte quasi dolorosa, è il risultato di un rapporto con la materia: diretto, personale, non mediato da nessun agente tranne quelli scelti dall’artista, è il recupero di antiche me- morie del fare, il risultato di esperienze personali sofferte e metabolizzate. Di conquiste, anche collettive di carattere sociale, di pensieri condivisi che hanno un’indiscutibile valenza morale e filosofica che hanno improntato l’agire e dunque il lavoro di Martina, che come scrisse un grande mistico, può a ragione dire: Volo, la mia polvere sarà quello che sono.

 

Vogliamo perdere la testa

Di –UNEMPLOYABLE- (Bianca Corsini, Lorenzo Gori)

Se mi tagli la testa cosa dirai? Me e la mia testa o me e il mio corpo? Che diritto ha la mia testa di chiamarsi me?1
L’approccio interspecista è ormai l’unica strategia di sopravvivenza attuabile in tempi di crisi.

Nel mondo animale, alcune specie in momenti cruciali del loro sviluppo si liberano di porzioni del loro corpo per completarsi nella loro forma successiva: nel caso del baco da seta la metamorfosi è testimoniata dal lascito di una “testa” all’interno dei bozzoli, in altre parole il baco da seta per evolvere perde la testa.

L’animale attua una pratica di intra-azione e inter-azione durante la sua metamorfosi, un processo naturale che si presenta solo in apparenza come momento di immobilità, ma che può aprirsi a nuovi approcci relazionali, riconfigurandosi come una vera e propria cerimonia del (con)divenire.

Nel regno umano il perdere la testa è inteso come il non essere più in grado di dominarsi, innamorarsi appassionatamente e ciecamente di qualcosa o qualcun* o perdere il controllo di sé.

Resteremo sempre vivi. Insieme per sempre. Andremo di metamorfosi in metamorfosi, inesauribilmente. Non perdiamo nulla perché siamo tutto.2
Il cambiamento e la fluidità sono parte della metamorfosi, un processo naturale – possibile e necessario – di rottura con i modelli statici dell’individualità e della fissità delle forme: cambiare come atto di costruzione per nuovi ed inediti immaginari. Prendendo esempio dal bruco vogliamo mutare, tagliarci la testa per accendere una rivoluzione, perderci. Il corpo si dissolve in nuove forme, si rigenera, abbandona la propria pelle per guadagnarne una nuova, vive e sperimenta la bellezza dell’impermanenza e del continuo divenire.

Una volta raggiunto il limite massimo della sua crescita, il bruco cessa di alimentarsi e cerca un luogo adatto per compiere la sua ultima muta e divenire crisalide. A seconda della specie, la durata di questa fase può durare da due settimane a un anno e perché tutto questo sia possibile, il bruco deve trovarsi in un ambiente che presenti condizioni favorevoli. I tempi di questo processo devono essere rispettati, è impossibile affrettare il ciclo evolutivo naturale. Viene quindi da chiedersi quali siano le condizioni di metamorfosi in un tempo umano, quando sia il momento di cambiare e quando invece si debba aspettare.

Nessuna forma di vita è destinata a rimanere identica a sé stessa nel corso del tempo,

questo cambiamento radicale non si configura come un passaggio privo di conseguenze e non si sottrae a queste, è per sua natura profondo e in potenza sconvolgente. Riteniamo che l’unico ambiente metamorfico possibile per l’umano sia lo stato di agitazione, la messa in discussione di tutti gli ambienti ritenuti fino ad allora favorevoli.

La FS3 di Martina Fontana diventa così la perfetta dimensione in cui appropriarsi di strategie altre, in cui scovare pratiche umane e non umane, in cui ripensare la forma in relazione a tutte le altre: vestire le cicatrici di un albero, proteggersi in grandi alveari o abbandonare il centro di controllo pur di innalzarsi verso la nostra (forse?) forma completa.

La metamorfosi non avviene mai in un momento di stasi, bisogna perdere la testa per cambiare corpo, DECAPITARE – DECAPITARE – DECAPITARE, essere generativ*, rischiare tutto, perdere, proteggersi con bava lucida, avvolgersi in bozzoli, infettarsi con gli altri esseri, mischiare il sapere nascosto all’interno dei nostri genomi.

 

1L’inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polański

2Alejandro Jodorosky, Quando Teresa si arrabbiò con Dio (1992)

3In Donna Haraway come Fatto Scientifico, Fanta-Scienza, Fabula Speculativa, Femminismo Speculativo.

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